SALMO IN FORMA DI CANDIDA PROSA[1]
«Io e il mio cuore non siamo mai vissuti
fino a maggio, e nella mia
vita passata c’è solo il
trentesimo aprile».
Ma stavolta fioriranno, coi
papaveri, e l’uva e il grano.
Non fosse stato, Signore,
che per i tuoi silenzi,
sospesi tra le acerbe fantasie,
e crude finzioni, rami di bosco
e ascolto di parole,
nei pomeriggi gonfi di malie.
E le tue mani, sottili acute rosse,
nel bagliore riflesso
di quel fuoco, imprevedibile
accogliente rifugio, quando
le luci brillano più limpide
e meno gioiose negli occhi miei.
E negli occhi tuoi, passibili,
mi fissa anche il gattino giallo,
che ci sorveglia, sonnecchiando
sotto l’orologio a pendolo.
E l’impressione di un luogo caldo, in tono
quasi frivolo, come di tende rosa alle finestre.
E i fiori, suscitati sul balcone, la dalia
il mughetto la rosa selvatica, i tuoi rossi
gerani tra le foglie verdi.
I veli e l’uncinetto, trame sottili nei
vapori di cucina.
E il riso e il pianto.
La prepotente tua dolce presenza,
la mia fragile essenza,
il tuo ineffabile tutto,
il mio metafisico niente.
Ed amo, tra la mente e il cuore,
la tua distanza dalle mie ore,
le luci e l’ombre della mia stagione,
il dono il segno la benedizione,
l’ansia raccolta nata col tuo nome.
Amo – ed è facile ormai –
la rosa che non colsi,
il muro che non scalai,
la fiamma che non spensi,
il ramo che non bruciai,
il glicine sulle pareti della tua casa,
tanto tanto grande.
E, col mio puntuale ritardo,
le ginocchia più assorte ed un’arpa alle spalle,
amo la luce che in viso mi porti,
amo il tuo sguardo.
E per il nuovo maggio,
per questo amore non più solo mio,
e a cui mi appoggio,
ti benedico, mio Signore e Dio,
Onnipotente e Saggio,
mentre mi scaldi, alla luce meridiana
di un tuo raggio.
Grazie davvero, adesso che vedo.
[1] Poesia per il giorno della prima professione.